Untitled Alessia Clema | Cristina Saimandi di Ivana Mulatero I Di passo in passo, d’incontro in incontro, di mostra in mostra, così Alessia Clema e Cristina Saimandi arrivano a condividere il progetto espositivo Untitled a Palazzo Samone. Si sono conosciute in una delle terre a più alta densità di storia artistica piemontese, in quel lembo conteso tra marchesi e duchi, da Valerano di Saluzzo con i suoi prodi ed eroine del Castello della Manta a Isabella Savoia Carignano patrocinatrice del fiorito barocco saviglianese. Lì un profumo di cantoria da confraternita (1) e di vecchi chiodi forgiati a mano (2) li ha unite: quello della materia (3) che si allarga sul mondo e si restringe sull’identità privata.Alessia Clema usa le materie che curano l’arte del passato, le resine epossidiche impiegate nei restauri delle opere lignee, miscelate con leganti e tradotte in estenuate colature simili al miele vischioso con cui ritualizzare in senso plastico i volti dei poeti, degli amici, dei famigliari, di se stessa; incide le lastre di plexiglass dalla cui nebbiosa sostanza plastica, visivamente attraversabile, appaiono i rami esili di un fitto bosco di alberi; deposita su fogli di acetato una stratificazione di immagini, dettagli paesistici scattati sul Passo de La Colletta, verso Pagno, incisi a secco e rivelati da una polvere di pigmento color ardesia. Cristina Saimandi usa le materie che appartengono alla tradizione scultorea e pittorica, le terrecotte e le argille, ma non disdegna le resine, le ceramiche e gli acrilici, per dare forma alle figure ataviche la cui femminilità non origina dalle armonie formali ma dalla natura stessa, verso la quale ogni corpo tende a rifondersi; pennella con l’acqua alonata di color ruggine gli incontri tra ibridi umani e animali su carte ruvide; depone pesanti strati di acrilico, bitume e grafite su teleri dove si accampano corpi ingigantiti carichi di pathos. Per interpretare e leggere la loro esposizione “a due”, si può così prendere spunto dalla materia, elemento concreto del fare artistico con una sua specifica letteratura precettistica, una citazione su tutte al Libro dell’Arte di Cennino Cennini, tuttavia la materia non rimanda solo ad un insieme di ricette e di saperi codificati ma, nello specifico, è un dato rivelatore della soggettività impegnata e accomunata nella tensione della ricerca individuale, e nel tentativo di contribuire ad evidenziare una nuova immagine che possa rappresentare la contemporaneità in rapida evoluzione. In tal senso le ricerche di Cristina Saimandi e di Alessia Clema, osservate in una luce particolare di condivisione giocata sui confronti, differenze e similitudini, alterità e analogie, divengono il lavorio quotidiano su un’idea di contemporaneità dalle molte sfaccettature: le vulnerabilità della natura e dell’uomo, i conflitti sociali, le fragilità affettive, le incertezze e le casualità esistenziali, le età del cambiamento, la percezione del corpo. Un aspetto della loro attività non risiede nella provocazione o nel forzare tali assunti problematici ma nell’elaborare una capacità di cogliere la propria singolarità, la propria storia individuale, per indagarla, leggerla e saperla raccontare come nuova possibilità di immagine e di senso e a proiettarla su quella collettiva sentendosene sempre più parte integrante. E’ questo uno dei dati rivelatori che, insieme al collegamento costante tra storia personale e processo ideativo, emerge ad una prima sommaria lettura delle pratiche artistiche poste in dialettico contrappunto. Negli anni, entrambe le artiste hanno prodotto una consistente e intensa esplorazione di quelle forme e di quelle particolarità espressive che sembrano provenire dalla rappresentazione di precisi stati interiori. Utilizzando varie fonti di riferimento come materiale visivo di partenza, entrambe preferiscono lavorare per allusione, suggerendo e lasciando emergere solo dettagli e brevi notazioni in relazione alle immagini, spesso fotografiche o pittoriche di riferimento. II La materializzazione di idee astratte da un lato e il grumo di realtà dall’altro, vale a dire i concetti di memoria e di empatia e la fisionomia propria delle persone coinvolte, si ritrova nella serie dei Volti, il gruppo di opere di Alessia Clema degli esordi. Sulle facce cala il gesso liquido e si rapprende sull’epidermide, divenendo un doppio intrigante che ricalca una interiorità. I vuoti dei calchi successivamente riempiti di resina riacquistano la loro sembianza figurale, ma sono come degli aspic raggelati, non certamente commestibili e neppure tremolanti, e tuttavia assai preziosi da contemplare perché trattengono per sempre alcune cose attraverso le quali le persone hanno affidato, per intermediazione, una storia biografica. La preziosità e la trasparenza della resina, che rimanda alle ere geologiche in cui un essere s’imprigiona nel tempo ambrato, completa ogni volto. Nell’essere volto e nel fungere da contenitore. Trasparenza, profondità e densità si legano come lo stare aderente a una raffigurazione: un volto è un volto, ma pure un’identità è un insieme di cose, di storie, di fatti, di ricordi. Il punto di avvio è un autoritratto del 2006 nel quale una dimensione interiore risale in superficie, approda a livello di una micro relazione che non può rinunciare ad una riconoscibilità. Il proprio volto in resina, consegnato in una rielaborazione ibrida che include la plasticità dei materiali e la pittoricità delle forme, si consegna nel genere del ritratto scultura. Due sono le suggestioni che alimentano l’esordio di ricerca: una è il ricordare “…l’affascinante ed emblematica Maschera di Agamennone…”(4) e l’altra è la visione dell’opera di Mike Kelley (5) in collezione “La Gaia”, dal titolo emblematico Memory Ware Flat #43 (2003). Kelley, l’enfant prodige del fenomeno post-human coniato da Jeffrey Deitch nel 1992 (6) muove dall’assemblaggio di orsetti di peluche a grandi tavole a parete sulle quali stanno cristallizzati tutti gli oggetti della civiltà globalizzata, come un insieme caotico, innocente ed inquietante ma alfine formalmente compiuto e contemplabile. Gli oggetti assumono la funzione di intermediari tra sé e il mondo, quando Alessia Clema usa un approccio di tipo performativo per rispettare un’istanza di autenticità del soggetto, ma la prima cosa che fa con la persona che si sottoporrà al calco del volto, è il dialogo e non l’atto di plasmare un ritratto. Una micro socialità, come insegnano le poetiche relazionali teorizzate negli ultimi decenni del Novecento da Nicolas Bourriaud a Lòrànd Hegyi, che ella sperimenta con tutti, compresi i detenuti delle carceri in alcuni intensi set formativi dove la componente psicologica interviene nella creazione dei volti. E’ quell’empatia necessaria per comprendere l’altro, in accordo al sentire proprio dell’animo umano. Lo sforzo nell’identificare il fenomeno del sentire quello che un altro sente per poter raccogliere non solo oggetti-intermediari dell’io/altro ma pure le incertezze identitarie, le fragilità affettive, la casualità degli eventi. Certamente, negli oggetti usati è depositata una microstoria umana, ma anche nei materiali del restauro, come la resina, è condensata una storia, quella della creazione artistica. Per questo i Volti, un ciclo di lavori ancora tematicamente sentito nel 2014 come attesta l’Autoritratto esposto in una collettiva dedicata al Nepal, hanno sollecitato interrogativi sul loro essere. La funzione è certamente quella di custodire le memorie, nel senso indicato da Giovanni Tesio (7) e di essere primariamente dei “ritratti” o delle “sculture in movimento” (8) ma non parlerei propriamente di maschere oniriche o funebri, la tradizione del calco mortuario o del feticcio rituale non le definisce, neppure sono indossabili come vere maschere per il tutto pieno di materia resinosa che le caratterizza. Collocate sui piedistalli o sulle esili mensole, sono le tracce residuali di un altro da sé, ma gli oggetti che s’intravedono nelle teste di resina, per la loro apparente arbitrarietà (in realtà una coerenza esiste ma non si può conoscere se non nella relazione interpersonale) plasmano dei ritratti d’affezione, eredi di una pratica ideata dai dadaisti al principio del XX secolo. (9) Pure il corredo delle lastre (2012) sono diaframmi nei quali il magma delle materie inghiotte, in una spessa nuvolaglia, pezzi di autoritratto fotografico, per non parlare dei più recenti inserti di paesaggi diafani che trattengono qualche larvale riferimento evidente del soggetto “albero” nella serie Quiet (2017-2018). Questi sono esempi che possono venire considerati il frutto di un principio compositivo complementare che costituisce il fondamento della concezione artistica di Alessia Clema. La sua figuratività, sia nei plastici volti in resina che nei paesaggi foschi su plexiglass, traggono un evidente momento di tensione dalla mediazione tra la rappresentazione mimetica, che ha influenzato come categoria centrale la creazione artistica fino addentro la nostra epoca, e l’idea della composizione autosignificante e autonoma, che ha segnato in maniera determinante l’essenza dell’arte moderna. I lavori più recenti, affidati a una miscelatura di immagini stampate su fogli di acetato sui quali la resina “cammina da sola” creando campi di trasformazioni percettibili, processuali nella trasmutazione silenziosa dei componenti chimici che si alonano, si coagulano, si aprono in piccoli crateri, offrono un ulteriore motivo formale nella lettura paesaggistica. Alla base della risoluzione compositiva ci sono vere e proprie “immagini esemplari”, dal momento che ella ricorre a delle fotografie scattate, ad esempio, durante i viaggi alla scuola del legno di Isasca. Per il progetto della forma figurata, tale modo di procedere risulta più rilevante che per l’evidenziazione della forma plastica dei Volti, nel senso che esso definisce un primo livello di presa di distanza dal carattere imitativo della rappresentazione. Al di là di questi aspetti, si possono cogliere altri momenti formali della presa di distanza dal modello fisico, laddove la serialità di produzione, sebbene ogni lavoro sia un pezzo unico, possiede la stessa chiara evidenza dell’impiego ambivalente di materiali diversi, come la cera, la carta, la grafite, i pigmenti quali le terre d’ombra, i bianchi titanio, zinco, d’argento, tutti ad effetto lattiginoso, e poi solo un altro colore, il blu grime. Questi mezzi formali, destinati a evitare un conglobamento identificante dell’immagine come ideale rappresentazione della natura, vengono accentuati mediante le rispettive combinazioni in relazione a un orientamento di campo, implicito nelle sperimentali stratificazioni di trasparenze. Attraverso lo straniamento di fondo della rappresentazione mimetica del paesaggio, la forma plastica (i lievi spessori delle resine), viene affrancata dalla sua percezione illusionistica da parte dell’osservatore (e dismesso anche ogni cordone ombelicale con la funzionalità dei materiali nel restauro). La sua presenza evidente (del paesaggio) si forma piuttosto mediante il rapporto dialettico tra il modello empirico e l’idea autonoma, che riporta in un reale contesto di tempo e di spazio l’osservatore e l’opera come esseri indipendenti. (10) Sono territori imprecisi che si completano con i ricordi che l’osservatore proietta sull’opera con sensibilità ed empatia, venendo ad adempiere a una sostanziale complementarietà tra il figurativo e l’astratto. III Una non dissimile giustapposizione di elementi complementari si ritrova nelle opere di Cristina Saimandi interessata a reinvestire le nozioni di femminilità e di spirito umano, concentrandosi sui temi come l’adolescenza, l’uomo/la donna e l’animale, colti e declinati proprio nella loro più complessa e ambigua presenza attraverso le nude figure di corpi e volti, come nelle serie pittoriche Mutamenti (2017), Ostinatamente fragile (2010) Adolescente, e nei lavori scultorei, dal nucleo plastico e installativo Fragile Metamorfosi al gruppo di piccole Maman. Nel caso della prima serie citata, la presenza di rugginose figure di uomini e donne dalle lunghe corna ramificate, isolate nel bianco abbacinante (il bianco della stessa materia della carta ruvida da acquerello), s’inserisce a volte in paesaggi minimi con accenno ad una striscia di terra delimitata sul fondo da profili montuosi, quindi con indizi di profondità spaziale che altrove non esistono in favore della frontalità assoluta delle figure. Una frontalità primaria, elementare nella sua immediatezza espressiva, enunciante come quella delle opere di arte parietale del paleolitico rinvenute nelle grotte. Non per nulla, l’unico colore che Cristina Saimandi usa per dare una forma alle figure è allusivo ai composti ferrosi dati dai pigmenti minerali dalle varie sfumature di ossido di ferro (ocra), manganese ed ematite. E tutte le figure hanno delle protuberanze che nascono all’altezza dei lobi frontali che si espandono in alto come antenne e si intrecciano le une alle altre come rizomi aerei. Inizialmente, il processo di mutazione aveva interessato solo la figura femminile, con una timida volontà di metamorfizzarsi con l’essere animale: il cervo che è forza e imponenza pura. Ma sarebbe stato limitante circoscrivere il mutamento alla sola figura femminile ed è per questo che la tematica - la corporalità e lo spirito umano che sottende tutti i lavori - si sviluppa in una risposta esistenziale dell’artista nei confronti del suo entourage in un modus politico e formale che negli anni successivi al decennio Settanta del Novecento, diviene una costante specifica degli studi di genere (nell’accezione di una presa di coscienza della condizione femminile e di quella dei soggetti minoritari). La presenza, in un certo qual modo dovuta a fattori sessuali, di connotazioni sociali-esistenziali nelle innovazioni formali dell’arte al femminile risulta evidente nelle opere di artiste come Carol Rama, Louise Bourgeois, Gina Pane, Ana Mendieta, che costituiscono un corollario ideale dell’iter artistico di Cristina Saimandi. Senonché, tale tendenza viene da lei accentuata dal momento che gli acrilici, le sculture e le grandi tele non solo fanno riferimento ai miti della Grande Madre, ma si fondano su tensioni sociali e antropologiche di portata maggiore, occidentali o universali. Lo attestano la serie che tautologicamente prende il nome dal colore con cui è realizzata, Arancioni (2015) in cui gli accadimenti e gli eventi di cronaca mondiale, dalla maratona di Pechino al decapitato dall’Isis, sono immersi in una nebbia arancione, un colore non dissimile alle ocre ferrose dei Mutamenti. Le immagini prelevate dalla realtà si rovesciano, diventano dei calchi in cui cola il pigmento fluido ad ecoline. Il vuoto, drammatico, affettivo, spirituale, è diventato arancione. La ricerca è anche una tematica denominata Orange che coinvolge sia una lunga serie di disegni di piccolo formato a grafite ed ecoline e sia una serie di tele di medie dimensioni che riprendono gli stessi soggetti. Se nelle piccole carte ella ha “…interpretato, spesso trasfigurando o sublimando, immagini arancioni dal mondo fissate in scatti fotografici” (11), l’insieme si agglutina in una costellazione di elementi, al pari delle tele nelle quali un gradiente fisico, il bitume, aiuta a conferire un versante “corporeo” alla astrattezza dell’arancione. Non proprio il rosso, colore del sangue e della passione, della sofferenza e dell’amore, ma l’arancione è il colore perfetto di mediazione fra “luminosità e tensione”, fra “spiritualità e carnalità”. (12) Ma per tornare ai temi di fondo dei Mutamenti, la produzione si amplia e include le grandi tele e anche le sculture in cui risalta l’interesse per la rappresentazione di un’umanità ibrida. Volti e corpi di figure, spesso adolescenziali o comunque giovani, si incrociano con rapide notazioni di carattere antropologico. La tematizzazione dello “spirito umano” che in relazione alla corporalità Cristina Saimandi iscrive nei propri lavori, non può venire equiparata semplicemente a una percezione storica maschile, condizionante e oppressiva, degli svariati ruoli di vita delle donne; piuttosto essa rinvia, al di là di questo aspetto, a una spiccata interiorizzazione femminile di tale percezione sotto forma di un processo evolutivo al contrario. Infatti, le creature, anche le ultime realizzate ad acrilico in cui i corni sono dei tralci d’uva (Metamorphosis, acrilici e grafite su carta, 2018), sono divenute tutt’uno con le capigliature ramificate. Il loro essere, arbitrariamente connesso al mondo animale, secondo un darwinismo mediato da una mitica affinità elettiva, li estranea dall’antropocentrismo e trasforma gli individui (uomini, donne, adolescenti: human race), al fine di completarne l’identità, in una umanità dalle radici identitarie meticciate. Le Maman, figurine in un’argilla autoindurente patinata, sono brutte ma posseggono una forza atavica e sono capaci di attraversare i paesaggi minimi come la loro consanguinea, non più mitologica ma umanissima e anche un po’ autobiografica, Leda (in carta, resina, gesso e patine) che indossa il casco di un rosso simbolico e i sandali infradito dello stesso colore. Le opere nel loro complesso, come già accennato, rilanciano sia alla tradizione di una coscienza del corpo di segno umanista (si guardi la tela Je suis ICI con il manieristico corpo in torsione di eco pontormiana), sia alle mutate condizioni nella percezione dei modelli figurativi contemporanei. Ciò significa che i lavori più plastici - le sculture chiuse nella loro cassa di imballaggio da cui escono parzialmente fuori solo la testa e il busto (Fragile, 2017) o la serie delle Ruggini (2015) da cui emergono le figure, divenute necessarie per opposizione al caos materico e processuale - sviluppano una tensione interna muovendo dal rapporto dialettico tra il loro richiamarsi a posteriore alla percezione empirica e all’idea figurativa autonoma, ad essa sopraordinata. Un’idea che non si fonda sull’oggettivazione di un’astratta concezione del corpo, bensì su una coscienza del corpo in quanto imprescindibile e irrinunciabile condizione naturale dell’essere. Un corpo che si offre a braccia aperte in R.13 (serie delle Ruggini), o abbandonato come una pelle incartapecorita che si affloscia e cede, memore di quel dettaglio del vasto affresco michelangiolesco nel Giudizio Universale della Cappella Sistina, in cui l’artista rinascimentale non esita a raffigurare il proprio autoritratto, una maschera deforme e impressionante, nel lembo di pelle mostrato da San Bartolomeo. In questo ambito, come per la “resina che cammina” nelle opere di Alessia Clema, non ci si può parlare che di movimento continuo nelle ossidazioni causate da sali e aceti sparsi sulla superfice delle lamierine in rame, che continuano nella loro proliferazione di forme su un solco tracciato dalle seconde avanguardie storiche, e in particolare con la poetica poverista che ha riscoperto il corpo, la memoria, il gesto, tutto ciò che è direttamente vivo e processuale. L’impiego di componenti eterogenei nel lungo iter creativo di Cristina Saimandi, che ha modulato le asperità e le drammaticità di un tempo (13), hanno sortito l’effetto di una mutazione continua dei colori dall’arancione sulfureo al blu ramato, ma non solo, anche altri innumerevoli sfumature che non sono più colore ma il corpo pulsante, e direi ritmico (13) della materia. IV Potremmo paragonare le opere che compongono questa doppia personale ai fili di un tappeto. Arrivati a questo punto li vediamo comporsi in una trama fitta e omogenea. La coerenza del disegno è verificabile percorrendo il tappeto con l’occhio in varie direzioni. Verticalmente: e avremo una sequenza del tipo cacciatori del paleolitico - maschere greche - corpi rinascimentali - accidentalità dadaiste – concrezioni processuali poveriste – micro narrazioni sociali. Orizzontalmente: e avremo nella seconda metà dell’Ottocento un Robert Vischer che indaga i processi psichici messi in moto dalle opere d’arte, in prosecuzione un Wilhelm Worringer che pubblica il basilare Astrazione e Empatia nel 1907 con il quale il processo di incorporazione del dato naturale e sensibile esterno investe una partecipazione emotiva che mette in moto una attività simbolica condensata nella produzione di immagini. Il concetto di incorporazione ritorna centrale in diversi campi disciplinari negli ultimi decenni del XX secolo, dalla antropologia culturale agli studi in danza, dai gender studies alla sociologia, non tanto per indicare l’assunzione di forma e materia corporea da parte di ciò che è incorporeo, secondo l’accezione teologica cristiana (con il termine “incarnazione”), ma come si è sviluppato recentemente nelle scienze biologiche, umane e sociali per indicare l’introiezione nel corpo di sollecitazioni esterne che ne diventano costitutive. Nel campo specifico dell’arte, e nelle opere esposte in Untitled, la nozione di incorporazione fa interagire i supporti (disegni, libri dei pensieri, fotografie, lastre metalliche, cavità di gesso) e i corpi, permettendo di ripensare i concetti classici di unità e di interiorità. Le trame del tappeto, che è poi alla fin fine lo schema con il quale compiere un tentativo di lettura della mostra a due e che rinvia a un modello di studio e di approccio all’arte similare e sensibile seppure articolato in forme diverse, hanno ancora un ultima direzione da osservare, in diagonale: e avremo l’opera d’arte simile a un fatto. Nella consistenza delle materie, le opere celano il proprio mistero e uno stratificarsi di livelli e di culture, proprio come i fatti quando accadono, producendo nuove associazioni conoscitive, i “fatti ulteriori” che vanno oltre la mera illustrazione dell’esistente. Il territorio sul quale si sviluppano le opere è, in ultima analisi, quello degli accadimenti, degli imprevisti che sorprendono, delle complementarità che emergono malgrado le contraddizioni apparenti e le primigenie intenzioni. Note al testo Mi riferisco all’intervento di restauro del coro e dell’organo compiuto da Alessia Clema per la Confraternita di San Rocco e San Sebastiano di Cumiana. Sono i chiodi che Cristina Saimandi mi ha mostrato, tirandoli fuori come degli assi dalla manica, sul finire della visita nel suo studio, raccolti da un tetto in disarmo e conservati per la storia che sanno trasmettere e per le possibilità di diventare figure, anch’esse con delle radici aeree, come nei disegni, emesse dagli organi di senso. Sono chiodi che assumono lo slancio verticale, a volte incurvato dall’uso, le cui estremità, sono da una parte una solida base e dall’altra un semplice grumo di argilla con qualche accenno a occhi, bocca, orecchie. Il termine materia è qui da intendere nel senso di coprotagonista dell’atto creativo, richiamato dalle necessità intuitive di creazione per corrispondere a un atto di reinvenzione del mondo, e non un mero strumento di lavoro. A sostegno di questa interpretazione, un pensiero di Cristina Saimandi: “…La materia mi attira e mi attirano i suoi depositi e le sue stratificazioni e modificazioni nel tempo. E’ anche la curiosità che mi porta ad affrontare nuove situazioni, anche quando il mio lato più razionale, si agita enormemente per tenermi aderente a tecniche e processi già utilizzati e quindi più sicuri”, in Alcune domande intervista a Cristina Saimandi a cura di Monica Bottero alla voce “Pubblicazioni” in : www.cristinasaimandi.it E di Alessia Clema: “La resina, come in quasi tutti i miei lavori, la utilizzo per la sua versatilità che mi permette di lavorare in bilico tra pittura e scultura. I suoi effetti sul piano mi danno l’idea di trovarmi di fronte ad una sorta di acquarello tridimensionale basato sui rapporti di tono dei colori dovuti all’utilizzo dei pigmenti in polvere. Le tonalità che prediligo sono i grigi e i bianchi con piccole varianti di azzurro. In questo caso, rispetto alla realizzazione delle teste, mi piace lasciarmi andare, dare spazio alla fantasia e non controllare l’avanzamento formale del disegno ma allo stesso tempo osservare la casualità dell’indefinito che ne deriva”. “Identità custodite. Resine, domicili privati”, Tesi di Laurea Specialistica, Corso di Pittura, Accademia Belle Arti Cuneo, Relatore Grazia Gallo, Anno Accademico 2016-2017, pag. 54. Alessia Clema,“Identità custodite. Resine, domicili privati”, Tesi di Laurea Specialistica, Corso di Pittura, Accademia Belle Arti Cuneo, Relatore Grazia Gallo, Anno Accademico 2016-2017. E’ interessante seguirne i ricordi scaturiti dalla Maschera di Agamennone: “Pensare a quella maschera mitologica mi ha portata a riflettere sul fatto che quando un individuo esiste, esiste nella storia, anche se non scritta. Ogni persona in vita lascia segni tangibili in cui, nella sola espressione, sono celati i ricordi. Questo particolare ha stimolato il mio interesse a proposito della ‘custodia dei ricordi’ e avvalendomi della conoscenza tecnica del restauro ho pensato di utilizzare le resine per bloccarli. In questa prima esperienza avevo inserito una serie di ricordi simboleggianti la mia infanzia: una fotografia in cui io ero ragazzina assieme a mia sorella, mia mamma e il mio papà. Poi c’erano matite pennelli e altri oggetti di quando ero piccolina. Questo è un mio modo di vedere le cose forse anche dovuta alla professione del restauro in cui, dovendo riportare in vita oggetti dei quali si era persa la memoria, gli stessi ritornano ad essere considerati come tali, rivisti e rivisitati con il senso di allora in contrapposizione a ciò che oggi rappresentano mediante un processo di purificazione della sensibilità. E come farli rivivere attraverso l’empatia”, pag. 50. L’incontro con l’opera di Mike Kelley alla Collezione “la Gaia” di Matteo Viglietta e Bruna Girodengo a Busca è segnalata da Alessia Clema in “Identità custodite. Resine, domicili privati” (op. cit.) pag. 24. La data 1992 è quella che afferisce alla pubblicazione del catalogo “Post Human” che ha accompagnato l’omonima esposizione in un debutto sulla scena artistica europea tra il settembre 1992 e il maggio 1993. Il riferimento va al passo di Giovanni Tesio del testo Ubi sunt – Ubi sumus: per la mostra personale “Femina” (Il Fondaco di Bra) del 2012 : “Ecco dunque che mentre il gesso opacizza, la resina (epossidica) fa trasparire, creando una permeabilità, in cui trovano dimora gli oggetti-emblemi – appunto – della memoria (la memoria come principio di conoscenza) e del cuore (il cuore come esercizio di passione): anch’essi silenziosi ma abitati da una specie di simbolico bric-a-brac (un piccolo atto di museificazione o di imbalsamazione, che tuttavia genera un commovente e a volte stridulo concerto di allusioni)”. Per l’interpretazione in termini di “ritratto” rimando al testo di Roberto Baravalle per la terza mostra personale del 2013 (“Pròsopon. Dentro il ritratto”, Chiesa di Santa Maria del Monastero di Manta) e per la definizione di “sculture in movimento” il richiamo va all’introduzione di Manuela Rinaldi alla prima personale del 2010 (“Io guardo alla mia vita di prima e a quella di adesso”, Saluzzo). Si pensi all’impiego di molti oggetti tratti dal mondo reale, dalla vita, e immessi nella creazione artistica dal dadaista e presurrealista Man Ray, il quale riconosceva che l’effetto di inutilità ci mostra gli oggetti nel loro aspetto, se così si può dire, umano. Proprio quando le cose non ci sono utili, o non lo sono più, esse ci toccano e parlano un linguaggio lirico. Le cose anch’esse essenzialmente esseri come noi. Molto vicino a questo pensiero è il sociologo francese Bruno Latour che si è interessato, negli ultimi decenni del Novecento, alle relazioni tra gli esseri umani e le cose, lanciando l’idea di una Costituzione che rappresenti non solo gli esseri umani, ma anche gli esseri non umani. Egli ha proposto un Parlamento in cui anche le cose siano rappresentate da scienziati, da persone riconosciute competenti in un campo particolare che riguarda delle cose, nello stesso modo in cui i deputati rappresentano i cittadini. Per maggiori approfondimenti rimando a Dalla Land Art alla Bioarte, a cura di Ivana Mulatero, hopefulmonster editore, Torino 2007. Come suggerisce Ugo Giletta nelle sue considerazioni a margine della collettiva “Etica ed Estetica”, ricorrendo alle riflessioni del filosofo Ludwig Wittgenstein, le ultime opere di Alessia Clema vanno verso un superamento della cesura tra opera e fruitore. Se nelle teste in resina le cose erano le intermediarie tra un io e il mondo, tra un ricordo ed un abbandono, tra la memoria e l’empatia, nelle ultime opere “…l’identificazione del soggetto si riconosce in ambito estetico come istanza di mediazione tra sensibilità e intelletto: la parvenza di elementi figurativi descritti da tratti incisi sovrapposti e/o mescolati in uno sfondo etereo, costruito sapientemente da bianchi e svariate tonalità di grigi fino al quasi impercettibile turchese, ci conducono alla fruizione di un mondo tra il reale ed il sublime”. La mostra “Etica ed Estetica” (Santa Maria del Monastero di Manta, agosto 2018) si segnala nella presenza delle altre due artiste, Grazia Gallo e Cristina Saimandi, come un ulteriore passo verso l’intuizione di Untitled. Cristina Saimandi alla voce “Tematiche” del sito : www.cristinasaimandi.it Cristina Saimandi, ibidem. In una collettiva di artiste Otto sguardi al femminile organizzata dall’Associazione Il Fondaco di Bra nel marzo 2014, a cura di Viviana Siviero, Cristina Saimandi interviene in prima persona per segnalare un cambio di temperatura emotiva: “Molto è trascorso. Molti i combattimenti, molte le ferite accumulate. Oggi, spesso fuori da fattori culturali e sociali, sento il mio essere donna libero, la mia istintività correre e la mia anima vibrare all’interno di mondi visibili e nascosti. E’ il mio femminino. Il mio spirito”. La collettiva vede tra altre artiste partecipanti anche Alessia Clema, per segnalare un incontro che si farà via via più disponibile fino alla compartecipazione attuale nella esposizione condivisa di Palazzo Samone allestita nel gennaio 2019 di cui questo testo ne tenta una interpretazione. Penso all’altra grande passione dell’artista, la musica, e l’esercizio dello strumento del violino. “…Musica e arte, vibrazione e materia mi permettono di oscillare tra due poli di esistenza. Adoro la fisicità della materia che tocco e plasmo nelle sculture e mi lascio attraversare dalle vibrazioni che il violino trasmette direttamente al mio corpo…”, in Alcune domande intervista a Cristina Saimandi a cura di Monica Bottero alla voce “Pubblicazioni” in : www.cristinasaimandi.it